Di Roberta Lanzalaco

Da qualche giorno abbiamo assistito a una cascata di sentenze e un flusso di coscienza in pubblica piazza in cui, forse, abbiamo dimenticato o tralasciato cosa significa comunicare.
Mi spiego: perché si realizzi una comunicazione è necessaria la presenza di due interlocutori: il parlante, chi emette il messaggio, e il ricevente, che ha un ruolo fondamentale: ascoltare il messaggio e dare feedback al parlante, per dimostrare che ha ricevuto il messaggio e lo ha compreso.
Ciò che è stato fatto negli ultimi giorni, invece, è stato solo usare parole, paroloni e parolacce. Non abbiamo comunicato un bel niente, abbiamo solo scritto da dietro uno schermo, accusato, puntato il dito, emesso verdetti, sentenziato. Qualora avessimo voluto esprimere le nostre idee per comunicarle e dunque fare in modo che qualcuno le ricevesse, avviando uno scambio o una discussione, avremmo dovuto avere un interlocutore che ci assicurasse di averle comprese per non essere travisati.
Ora, è vero che Facebook sia una piazza in cui ci si può virtualmente incontrare e parlare, ma è anche vero che Facebook, se ci allontaniamo dal suo nobile intento di connettere persone lontane, diventa una piazza con molte zone d’ombra, quelle in cui ci nascondiamo dopo aver tirato il sasso. E soprattutto se ci rendiamo conto che quel sasso ha fatto male.
Chiarisco, è capitato e capita anche a me di postare su facebook e, in quei casi, l’ego ringrazia attraverso i pollicioni raccolti. Ma l’ego e niente più.

In questi giorni abbiamo assistito a una vuotezza di contenuti, uno sciabordare infinito di parole, pensieri, idee che non creano né informazione né comunicazione positiva, ma solo comizi, tra l’altro da pulpiti che rimangono troppo spesso alti e lontani da quel che invece accade veramente di sotto.
Ora, che ognuno possa e debba avere le proprie idee è cosa giusta e sacrosanta. Ma è anche vero che, se da un’idea non si costruisce un dialogo, l’idea-comizio vomitata in una pubblica piazza come Facebook si dissolve come gli anelli di fumo di una sigaretta. Quindi forse avremmo fatto meglio a tenerla per noi.
Se invece vogliamo costruire un dialogo attorno alla nostra idea di partenza, perché sentiamo il bisogno di misurarci con gli altri, capirci di più, indagare altre spiegazioni e punti di vista, allora forse è il caso di raggiungere chi lavora ogni giorno su quello che stiamo esprimendo. Faccio un esempio, se esprimiamo un’idea sull’addestramento dei cani e non ne siamo esperti, forse sarebbe utile raggiungere direttamente chi lo fa per mestiere che, in quanto titolato, può dare informazioni e risposte più utili. E così accrescere il nostro bagaglio di conoscenze. E invece no. E’ più facile svuotare il sacco di parole su un tavolo, come fossero baccelli di piselli appena raccolti e poi rifiutarci di sbucciarli e metterli in ordine. Tanto poi c’è chi lo fa. E se da un lato riordinare un tavolo da cucina può sembrare semplice, pensate voi a chi deve invece occuparsi di riordinare le emozioni, i pensieri, gli stati d’animo dei giovani quando voi con le vostre sentenze, sputate senza cognizione di causa, avete solo creato disordine, disillusione, scoraggiamento e smarrimento.


Così in queste ultime ore, in occasione della liberazione di Silvia, è stato un continuo rovesciare parole, come si rovesciano sacchi. E tutto è rimasto lì. Tanto poi c’è chi lo fa. E allora, siccome io sono una di quelli che poi lo fa, che poi cioè rimette ordine negli animi dei giovani che come Silvia vogliono fare i volontari, eccomi qua a pulire quel tavolo.  Io faccio parte di un’associazione che “manda giovani all’estero a fare chissà cosa”, e quindi mi piacerebbe parlare non di quello che i giovani vanno a fare, ma di quello che i nostri giovani provano quando sentono impellente un’energia dentro che non sanno nominare, eppure c’è. Quell’energia si chiama desiderio di mettersi al servizio degli altri e noi a quel desiderio diamo forma attraverso un progetto di volontariato all’estero.

E ciò che non avete considerato nello sproloquio sopra descritto è il tempo che non avete mai riservato a guardare gli occhi di quei giovani mentre parlano di quel desiderio.
Occhi vivi e vividi, che tradiscono l’emozione di parole impavide. E quegli occhi hanno un guizzo speciale che cambia in base ai momenti che vivono: pre-partenza, partenza, volontariato, rientro.
Assistere ed essere testimone del viaggio interno e personale delle loro emozioni mi rende privilegiata. Come si può spezzare uno spasimo così forte e dire “resta qui a fare il volontario”? Probabilmente, avete anche ignorato, perché giustamente non fa parte del vostro ruolo lavorativo, che il guizzo è proprio dato da questo: sfidarsi, andare lontano da casa per lunghi mesi e aiutare gli altri per migliorare loro e sé stessi. Quindi andare a fare il volontario all’estero, se magari ci riflettiamo bene, può anche far parte di un piano di crescita personale e professionale per poter tornare poi a casa propria pieni di competenze e abilità spendibili nel proprio territorio e migliorarlo.

Illustrazione di Il Merlo

Quello che tralasciate e dimenticate è la necessità di scendere a patti con le proprie paure, riuscire a sconfiggerle e tornare per dimostrare, forse a chi qui non dava possibilità di prova, di essere capace e valente. In più, ciò che scatena il desiderio è anche la necessità di sentirsi utili in una comunità che non è la propria. E non perché la propria di comunità non avesse bisogno di supporto, ma perché probabilmente questi giovani non si sentivano in quel momento le persone adatte a dare quel supporto.

Non voglio generalizzare, ogni storia è vera perché unica, personale, privata. Ma volendo fare un discorso che va oltre la situazione particolare, posso assicurarvi che la spinta motivazionale, emotiva che anima questi giovani è la stessa: aiutare gli altri perché così facendo aiutano sé stessi a capire come crescere, come diventare empatici, come diventare migliori. Fateci caso, non ci sono pubblicizzazioni e propagande che poi diventino virali su Facebook, di quello che questi giovani fanno. A loro non interessa spettacolarizzare. Partono, si impegnano, si stancano, provano soddisfazioni. E poi sapete che fanno? Tornano e probabilmente ve li trovate pure nel circolo ricreativo sotto casa e i vostri figli, nipoti, fratellini vi diranno quanto è bravo il ragazzo che mi fa giocare. E magari quel gioco l’aveva proprio imparato lontano da casa, quel ragazzo.

La voglia di partire e fare per quel che si può del bene, fosse anche solo ripulire e riordinare una mensa, anima questa anime (perdonate il gioco di parole) di una certezza semplicissima: essere ed essere state utili. Al tavolo su cui abbiamo rovesciato il sacco di piselli appena raccolti, ci si deve rimanere e sporcarsele le mani e stancarsi e capire quali baccelli scartare, quali lasciare perché il pasto sia una lauta ricompensa.
E al giovane, al quale noi di Strauss dobbiamo riordinare l’animo, dico quello che Pasolini sa dire meglio di come posso dirlo io:
«Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. […] T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece».